sabato 7 dicembre 2024

Siria: 13 anni di rivoluzione/involuzione

Notizia di ieri: Damasco è in mano ai rivoluzionari (... avendo aggiornato il post il 10/12). Assad è fuggito in Russia.
I giudizi li darà la storia ma è qualcosa di speculare già visto in Iran. La specularità sta nel fatto che allora il regime (filo americano) era stato sovvertito da guerriglieri filo russi, Oggi è al contrario, sebbene gli integralisti islamici non abbiano un'alleanza cristallina con l'America.

12 anni fa scrivevo un racconto ambientato agli albori di quella guerra. Si trova qui sotto, a seguire. 







Damasche





Di nuovo in viaggio, ancora alberi che sfilavano all’indietro e assieme a loro tutto il mio passato. Le prospettive si accavallavano e si confondevano in un riverberare di luci ed ombre. Una danza di sfioramenti dove le distanze si scalzavano a gerarchie di vicinanza. All’infinito. Ed ancora alberi e scogli che si perdevano nel cammino lasciato alle spalle. E pensieri e volti e voci.
Il mio cavallo era stanco. Io non dormivo, ormai, da molto tempo e nella stanchezza stentavo a riconoscere come miei i pensieri che mi si annodavano in testa.
Mi sentivo un parassita di quel povero animale. Lo sfruttavo da giorni, mi appropriavo del suo corpo, lo condizionavo, lo dirigevo. Un parassita. Certo, lo sfamavo e gli davo anche qualche pacca affettuosa sul groppone. Una sanguisuga non avrebbe avuto queste attenzioni, d’accordo, ma era solo una differenza d'approccio. Davo al cavallo per ottenere qualcosa che io non avevo: movimento, velocità, futuro.
Mi dissero che per raggiungere il confine era preferibile un cammello o al limite un cavallo. 
La guerra ha bisogno di petrolio e con l’auto si rischia di rimanere senza. 
Ci possiamo portare delle taniche. Dissi io.
Al confine sequestrano le scorte, se va bene. Se va male, lo fanno prima e si prendono anche la vita.
Lo ribattezzai Sanpaolo, il cavallo. Mi ricordava un somaro che mi accompagnò da Carrion de los Condes ad Astorga in Spagna. Nel mezzo del Cammino di Santiago. Date le zone in cui mi trovavo in quel momento, mi sembrava giusto aggiornare il santo, perlomeno.
Qualche giorno prima ero a Damasco. Ora in una zona non ben precisata, verso il confine col Libano.
I miei viaggi, fino ad allora erano stati scanditi dagli orari degli aerei e dei treni, dagli orari degli appuntamenti con i fattori della Saduk e figli, dai quali compravo datteri e prugne per poi rivenderli in Europa col marchio “Damasche” e, soprattutto, erano stati segnati dalle perdite di tempo con gli amministrativi doganali, sempre ben disposti a farmi passare la merce all’aprirsi del mio portafoglio. Erano viaggi bui e con molta voglia di tornare a casa al più presto.
Damasco? Sì bella, ma una volta, poi alla seconda è già un cumulo di sporcizia e povertà.
Arrivai l’ultima domenica di marzo, l’atmosfera era ancora molto tesa malgrado l’annuncio delle riforme che, a breve, avrebbe dovuto attuare il Presidente. Avrei dovuto passare dieci giorni di trattative con i locali per scongiurare le possibili carenze di scorte future ed ero pieno di euro e dollari, nel caso avessero voluto qualche rassicurazione da subito. 
Dovetti spostarmi anche al porto di Laodicea con un improbabile autobus di linea, tra il caldo torrido delle secche pendici dell’Anti-Libano e le distese coltivate della frangia mediterranea. Settecento chilometri che non servirono a nulla. La rivolta era in una fase acuta in città e l’autista, dopo una concitata telefonata col suo capo, si fermò ad una decina di chilometri dal centro. Scesero un paio di persone e ripartì subito, riportandoci tutti indietro. 
Due guardie militari mi fermarono alla stazione di Damasco. Lei è ebreo, mi dissero. Abbiamo controllato. Nelle loro teste in divisa non c’era altro sillogismo che il binomio ebreo-spia. Poi tutti questi dollari e questi euro. 
Sono ebreo, sì, di famiglia, ma non credo a nulla, sono un commerciante e voglio tornare a casa al più presto con i miei contratti. Ma evidentemente, pensai, loro avevano l’idea che tutte le spie si spacciassero per dei commercianti e fossero imbottiti di dollari ed euro.
Passai alcuni giorni rinchiuso in una cella per accertamenti. Ma l’idea era quella che volessero, comunque, farla pagare a qualcuno. 
Fuggire, però, non fu difficile, soprattutto se ti trasportano su di un camioncino con le portiere senza sicura.
Amicizie? No, in Siria non ne avevo. C’erano solo contatti, conoscenze di lavoro, mercanti. Tuttavia tornarono utili. Mahdi, un bracciante della Saduk, mi ospitò nella sua casa per un paio di giorni.
Domani vado via, verso il Libano con Huda, mia moglie e i bambini. Mi disse. Puoi venire con noi.
Partimmo di notte a cavallo, lasciammo la città da sud, compiemmo un ampio arco verso ovest attorno agli ultimi quartieri della periferia e ci dirigemmo, infine, verso nord.
Huda era il nostro faro, sapeva perfettamente dove andare, sicura nella notte e prudente sotto il sole. Capii ben presto che era una combattente antigovernativa. Il marito non sapeva nulla.
Le nostre strade si divisero a Qura al-Asad, dopo un paio di giorni di viaggio. Mahdi si convinse che fosse giusto appoggiare la causa della rivolta. Sarebbero ripartiti dopo pochi giorni per Aleppo. Huda mi indicò la via per il Libano. Disse che era preferibile non passare il confine ad ovest, benché fosse vicino, ma di proseguire a nord ovest, verso Al Zabadani e da lì raggiungere la frontiera attraverso i monti. 
Mi lasciarono il cavallo. Pensando alla loro povertà considerai il gesto una delle prove che l’umanità è capace di molto, quando non si muove nelle quadriglie della società. Li ringraziai e ci salutammo. 
L’idea di essere da solo in una terra di conflitto mi faceva rabbrividire. Mi assillava il pensiero che, alla fine, a quel confine non ci sarei mai arrivato. Eppure era così dolce il suono degli zoccoli su quel sentiero impolverato e di notte i paesi che sfilavano illuminati dal firmamento più denso che avessi mai visto, davano una parvenza di tranquillità e spensieratezza al mio vagare. 
Dopo aver passato altri due giorni a vagabondare per quelle terre non mi era più chiaro se stessi ancora fuggendo e, se sì, da cosa. Dall’accusa di essere una spia? Dalla guerra? Probabilmente nel marasma di quei giorni le mie sorti non sarebbero interessate più a nessuno. Potevo stare un po’ più tranquillo e chiedere ospitalità a qualcuno per passare le notti o era meglio continuare il mio viaggio? Era chiaro che senza i miei documenti confiscati dai militari non avrei potuto far nulla, dovevo solamente raggiungere un’ambasciata oltre confine e sperare nella clemenza delle autorità libanesi per avere un nulla osta per il rientro. 
Proseguii zigzagando, senza precisi punti di riferimento. Sapevo orientarmi con le stelle ed ero certo di non essere troppo lontano da Al Zabadani, ma la sensazione era quella di girare in tondo. A tarda sera alcune montagne distanti sembravano ritornare nella stessa posizione della mattina ed ormai erano già passati quasi sei giorni da quando avevo lasciato Damasco, avrei dovuto essere già ben oltre il confine.
Mi fermai in un frutteto. Era quasi notte. Il mio mezzo di trasporto ansimava e sputava un liquido verdastro. Forse era malato o forse affranto per la lontananza dei suoi padroni, pensai. Ma probabilmente era solo stanco ed affamato.  
Arance, mele, kiwi. Un paradiso. C’erano persino alcune mucche che, malgrado l’ora, pascevano tranquille in una collinetta che si trovava a poche decine di metri da me. Mi abbuffai. Il vecchio Sanpaolo sembrava impazzito, saltava per afferrare le mele più alte, dimostrando che la stanchezza è di una materia meno consistente della fame. Alla fine munsi del latte dentro la borraccia e lo bevvi quasi ad ingozzarmi.
Stavo bene. Le stelle e la leggera brezza della sera infondevano una tranquilla voglia di vivere. Di sognare. Era molto che non lo facevo. Il lavoro, gli obblighi di ogni tipo. I debiti. Ero confinato in una vita che non mi permetteva più di avere uno spazio per i sogni. Ora ero distante da tutto, ero in viaggio, disperso in un mondo che quasi non conoscevo ma che sentivo appartenermi. Forse solo per l’idea che stavo conquistandolo metro per metro, con sofferenza. Fuggendo. Tuttavia non avevo la percezione di vivere qualcosa di completamente diverso da me, da quello che era stata la mia esistenza fino a quel momento. Era una sensazione di pienezza e di appartenenza alla terra. 
Non avevo lasciato il mio vecchio mondo. Stavo aggiungendone pezzi.
Quando la notte si fece fresca di brina, accovacciato in un sonno profondo, sognai una cascata che portava con sé le foto della mia vita. Rividi quella dei i miei nonni felici con le loro dentiere nuove e lucenti. Sorrisi nel ritrovare la fotografia di mio padre con un mattone in mano, mentre costruiva i primi muri della nostra casa. Alla fine tutte le foto scomparvero nella corrente, ne rimase solo una, incagliata in una rocca. Era quella del mio matrimonio, che non c'era mai stato. 
Al risveglio sentii una forte fitta alla schiena. Pensai di averla sognata, ma girandomi di scatto vidi la canna di un fucile che riprendeva stabilità nelle mani di un uomo. Recuperato l’assetto, mi sorrise e spingendo la canna sul mio costato, pronunciò alcune frasi incomprensibili. Poi le sue parole divennero più decifrabili: Tutti uguali voi italiani, tutti dei ladri.
Lasciò scivolare l’arma sul suo fianco e mi tese la mano per farmi alzare. 
D’altronde la fame è fame. Aggiunse.
Mi condusse attraverso un filare di palme da dattero che sfociava in una collinetta piantata a vite. Alla nostra sinistra c’erano alcuni cedri. Davanti a noi, ai piedi della collinetta, c’era un casolare. 
Mia casa, mi disse. Sua casa era quello che, quasi, non avevo mai osato desiderare. Pensai che per qualche errore i miei sogni fossero stati esauditi ad uno sdentato di settant'anni e con l'aspetto da pirata di terraferma. Forse se l’era meritato, ma ne dubitavo.
Mi accolse in casa sua con un caffè alla turca e molti sorrisi. Io gli parlai dei miei ultimi giorni da fuggitivo.
Smise di sorseggiare il caffè ed il suo sorriso si tramutò in ghigno di scherno. Mi disse che ero stato uno sciocco a scappare. La portiera del furgone non era stata lasciata aperta per caso. I militari, in qualche modo, avevano saputo del mio denaro e la povertà non lascia molto spazio per le buone azioni.
Ciò che mi era stato requisito avrebbero dovuto rendermelo una volta accertato che non fossi una spia. Così no, così rimaneva tutto a loro. Lo fanno spesso. 
Ora, però, ero un fuggitivo. Dovevo allontanarmi dal paese. Mi disse che il confine non era lontano. Era oltre le colline, ma meglio lasciare il cavallo e proseguire a piedi per non dare nell'occhio. Senza documenti e senza soldi era difficile passare la frontiera. 
La giornata si dilatò nell'ondeggiare delle foglie di vite e nelle vaporose tazze di caffè corretto con liquore di dattero che il mio ospite mesceva con dovizia. Poco si può, lo dicono le Scritture.
La mattina del giorno seguente ero pronto per attraversare la frontiera. Riposato e rifocillato. Ringraziai l'uomo. Salutai il mio compagno Sanpaolo, con l’idea che in mezzo a quella natura tranquilla e rigogliosa sarebbe stato bene. 
Bevvi l’ultimo sorso di liquore e mi addentrai nei cedri.
Camminai in discesa per un sentiero polveroso. Quando i cedri lasciarono il posto a ginepri e ginestre vidi ad una cinquantina di metri alcune persone. Mi videro anche loro. Ormai proseguii ostentando naturalezza. Ma avvicinandomi notai le loro divise. Le loro auto. Erano poliziotti. La mia fuga finiva qui. Non ero una spia, ma ero fuggito ad un arresto.
Forse il vecchio sdentato mi aveva tradito? Probabile, pensai.
Andai incontro al mio destino, intuendo lo sguardo delle guardie seguire ogni mio passo. Mi sentivo come quando sull'orlo di un precipizio si avverte un'attrazione fatale per il baratro. Come se una forza interiore ci volesse far assaporare la sciagura ed un'altra forza, la paura, ne bilanciasse la spinta tenendoci ancorati alla vita, raffigurando una danza incerta e dondolante tra noi ed il nulla.
Allo stesso modo davo alle mie gambe due ordini inversi: scappare ed andare avanti. Fu più semplice proseguire nella discesa, verso il baratro.
Arrivato alla loro altezza non percepii nessun movimento. Solo uno di loro salutò con un sorriso incuriosito. Mi fermai, incredulo. 
Parlai francese. Forzando la mia voce a mantenere un tono candido e leggero, chiesi loro quanto mancasse ancora per il paese. Una domanda senza senso, non sapevo neppure dov'ero. Mi accorsi che non lo avevo chiesto nemmeno all'uomo che mi aveva ospitato.
Poco, manca poco, dissero. Mi chiesero se fossi un giornalista e che ci facessi da solo in quelle zone. 
Sono una spia israeliana, ho ammazzato alcune guardie a Damasco e sono fuggito. Il pensiero di questa risposta mi fece sorridere. Stavo riuscendo ad essere tranquillo, quasi estraneo agli eventi, anche se in verità sapevo di essere, ormai, in trappola. 
Sono un commerciante. Ero un commerciante, ora non so più cosa sono. Si guardarono e mi chiesero i documenti. Risposi che li avevano loro a Damasco. 
A Damasco non avevano nulla. Dovetti seguirli al Comando. 
Raggiunta la cittadina notai qualcosa che non focalizzai subito, ma si materializzò pian piano e diventò evidente una volta arrivati al Comando di Polizia. Il cedro. Nella bandiera c’era un cedro. Ero nel Libano. Per quanto di nuovo in arresto, ero salvo.
Il Comandante sembrò comprendere la mia situazione e disse che avrebbe fatto il possibile per farmi tornare a casa. Gli italiani avevano fatto molto per il suo popolo e si sentiva personalmente riconoscente. Gli italiani sì, ma io potevo essere un omicida. Tacqui e sorrisi annuendo. Però, aggiunse, dopo tutto quello che avevo passato, farmi rubare il cavallo da quel turco, non era stato un finale degno.
Scoppiai a ridere. Un turco. Ero stato fregato da un truffatore turco. Ma mi rallegrai: quel paradiso non era il suo, mi dissero che era solamente il custode dei quei poderi. Il proprietario era uno dei più ricchi possidenti della zona. Mi sentii sollevato. In uno stato d’euforia assoluta benedissi tutti i truffatori turchi del mondo.
Sentivo una pace interiore smisurata ed ebbi la forte sensazione che dopo quell’esperienza sarebbe andato tutto in modo diverso. 
Mi era chiaro, a quel punto, un pensiero che avevo abbozzato quasi venti anni prima, percorrendo a piedi gli oltre ottocento chilometri che separano Roncisvalle da Finisterre. Un pensiero che si sbiadì nel giro di pochi mesi da quel viaggio, ma ora era fresco come se tutto il tempo passato lo avesse alimentato con silenziose conferme. 
Nelle lunghe giornate di cammino, spesso mi interrogavo sul perché avessi voluto intraprendere quel viaggio. Alla vista dell’oceano, alla fine del mio vagabondare, maturò l’idea che, in fondo, mi ero spinto in quell’avventura per farmi delle domande. Solo domande; le risposte, un giorno, sarebbero arrivate.
Questo era stato il viaggio delle risposte.
Da lì a pochi giorni tornai in Italia ritrovando tutto quello che avevo lasciato. 
Presto ripartirò, pensai.
“Damasco? Era un cumulo di sporcizia e povertà, ma era bellissima… Era bellissima!”


domenica 16 giugno 2024




La sconfitta dell’autunno

(Piove sulle tame… Basta, piove su tutto!).


Piove più di quanto il ciel ne abbia
No…! Anche sul candido color del mio calesse!
Insomma, l’auto: quattro ruote e nessun puledro. E piove sabbia!
Infine, credo, è proprio così: le primavere non son più le stesse.

Poi, però, vado rimuginando: vediam un pochetto altrove
Il mio sguardo in fondo è piccino
Poi mi chiedo, sì, ma dove?
E, cercando, scorgo un posto carino.

Mi avvicino, voltando il mio sguardo un po’ severo
E vedo cieli e terre, prati e stelle
Mai accorto mi ero che lì, non ho dubbi: è per davvero,
Tutte le cose fosser così belle

Piange la gioia e un pochino sorride anche ‘l dolore
Son spiazzato, inciampo e cado. Che faccio? Urlo!
Perché mai non mi accorsi di tutto questo colore?
Attorno a me, silenzi Ma sto bene e alla fine di me mi burlo.

So dove sono! Questa bellezza non è altro che immaginazione
La conosco. E ora, a ben vedere qualche voce arrivar la sento
Mi parla quel fantasma, quel ciliegio e uno stregone
E sapete che vi dico? Di rimaner qui, più non me ne pento.


(… Bimbetto, ti infradici, torna a casa!).

domenica 2 giugno 2024

Hogmanay

Qui qualche parola sul romanzo Hogmanay, l'alba degli dèi
Salone del Libro di Torino.


domenica 21 aprile 2024

Avanti Savoia - Luca Lume






Avanti Savoia




Quando querce e castagni diventeranno marmo continua a sinistra. Poi sempre dritto, in su per il sentiero, mi dissero.

Con me avevo viveri, coperte. Armi. Dalla filanda alle ultime case, poi per la stretta valle dove, curva dopo curva, la vista si apriva sulle imponenti cime marmoree. Il monte Cavallo, il Grondilice, il Contrario. Ogni passo rivelava una prospettiva differente su quelle scarpate diafane. Le altezze dei monti sembravano variare a seconda dell’albero su cui rimbalzava lo sguardo e l’idea che quel potere dimensionale arrivasse da forme relativamente piccole, quasi invisibili dall’alto di quelle sculture primordiali, mi fece correre veloce e pensare che, in qualche modo, anche la mia insignificante corsa avrebbe potuto cambiare il destino della guerra.

Come spesso accade attraversando i più grandi cambiamenti della vita, mi ritrovai ad essere lì, a Forno, in quei giorni, per un puro caso. Mio padre era morto pochi mesi prima. Fino a quel momento la mia maggior delusione era stata scoprire che il minestrone della signora Lina, la vicina di sotto, l’unico che mi fosse mai piaciuto, in verità lo aveva sempre fatto mia madre e del suo non ne avevo mai sopportato neppure l’odore. Un giorno le rinfacciai duramente di non saper cucinare. Al posto di una sberla, lei mi tirò in faccia quella verità:

Gliel’ho sempre dato di nascosto per fartelo mangiare, gridò.

Piccole cose che a otto anni diventano grandi e lo restano per sempre. Poi se ne aggiungono altre. Mio padre, medaglia d’onore nella guerra di Spagna, uomo di mondo e orgoglio del fascismo, aveva l’aspirazione di donare il proprio seme a qualunque donna fosse passata per il suo campo visivo. Lo scoprii per caso: pochi giorni dopo del suo funerale, guardando la sua foto al cimitero, un amico mi disse che era impressionante quanto assomigliasse a mio cugino Marco... Era vero! Non ci avevo mai fatto caso.

Poi cugino… Perché cugino? Sua mamma non è sorella né cugina di nessun nostro parente e suo papà era un tedesco…

No, il padre di Marco era tuo padre!

Il mio mondo crollò in un attimo per ricompattarsi, quasi all’istante, sopra un altro piedistallo. Certo, è logico, pensai, mio padre non c’era mai e quando stava con noi sembrava che lo facesse come un favore. Ma perché lo sa un estraneo e non lo so io? Parlai a lungo con mia madre e mi raccontò tutto. Mi disse che per un ragazzo non sapere era il miglior modo per crescere bene. Non risposi per non aggredirla. Alla fine mi fece un’ultima confessione parlandomi sottovoce. Oltre a Marco avevo anche un altro fratello. Perlomeno uno, di cui si avesse conoscenza. È nato il tuo stesso giorno, mi disse con lo sguardo rivolto a terra e una lacrima che stentava ad uscire. Eravamo gemelli di pance diverse, pensai, quasi sorridendo.

Marco non avrei potuto considerarlo un fratello neppure sforzandomi. Troppo piccolo, troppo antipatico... Troppo stupido! Forse quel Nando, Nando Macelloni, così si chiamava, avrebbe potuto davvero essere mio fratello, per tutta la vita. Dovevo conoscerlo!

Figliuolo, siamo in guerra, non puoi andare così, da solo, a sedici anni. Lui vive a Massa, laggiù è pericoloso. Disse mia madre, con un tono innaturalmente retorico.

Sto già partendo, risposi.


Quando arrivai, nessuno sembrava conoscere Nando. Non avevo un indirizzo preciso, mia madre si ricordava di una strada, ma anche lì nessuno sapeva nulla. Quando già avevo perso gran parte delle speranze, mi si avvicinò un signore vestito di lino e con in testa una fedora bianca a tesa piuttosto ampia.

Ragazzo, mi disse, se pronunci ancora un paio di volte quel nome puoi dire addio alle tue palle! Devi cercarlo sui monti, tra Colonnata e Stazzema. Di più non so dirti.

A Colonnata fui meno imprudente, dato che “il mio gemello” doveva avere qualche ruolo nella resistenza. Strappai qualche informazione sui gruppi della montagna cercando di non tirarmi dietro la curiosità di qualche gerarca o di uno dei tanti fascisti zelanti. Verso sera notai un giovane mal vestito con alcune coperte sotto braccio ed uno zaino sgualcito in spalla. Quando gli domandai se avesse sentito parlare di un ragazzo di nome Nando di Massa, mi fissò per qualche secondo e mi disse di seguirlo che sul passo stavano aspettandomi.

Le coperte sono tue, prendi!

Arrivammo in cima quando il sole stava tramontando, ma, a dispetto della genericità del verbo, lo faceva sul mare. Il riverbero vermiglio riflesso su quei monti di marmo, dava all’ambiente un’atmosfera surreale. L’oscurità risaliva per le vallate. Sembrava che pian piano conquistasse spazio alla luce, mentre questa, ferita, batteva in ritirata sempre più verso l’alto, per poi sparire completamente vinta dalla notte e dalla sua quiete.

Bene, ridammi le coperte. Non sono le tue, sciocchino!

Ovviamente lassù non mi aspettava nessuno, ma tutti festeggiarono il mio arrivo.

Castoro non è troppo simpatico, però ha fiuto: capisce che uno è un partigiano ancora prima che lo diventi. È un genio! Mi dissero.

Castoro? Poi Topo, Criceto, Volpe. Non sarebbe stato facile trovare un nome reale in mezzo a quella fauna di epiteti, ma tentai.

Nando? Sì, è uno di noi. È sul Cavallo, aspetta segnali dalla radio. Ma devi chiedere di Catacomba, lo chiamiamo così... Catacomba? Andavamo bene!

Mi dissero che il loro gruppo si chiamava “Mulargia”.

Sempre con noi! Fu pronto ad urlare un ragazzotto, indirizzando quel grido al martire da cui avevano preso il nome. Io dissi che non avevo mai avuto precise idee politiche. Mio padre era fascista, ma il mio migliore amico era ebreo ed era stato portato via con tutta la sua famiglia.

Ecco, mi dissero, è per lui che cambierai le sorti di questo paese.

Quel sommario indottrinamento politico fu miracolosamente efficace a farmi diventare un partigiano. Da quel giorno fui ribattezzato “Piccolo”, essendo il più giovane combattente del gruppo, assieme al mio gemello.

Passarono le settimane ma di Catacomba non se ne vedeva neppure l'ombra, mi dissero che era sempre impegnato sui monti perché era bravissimo con le radio ed eravamo in attesa di un segnale importante. Infatti un giorno arrivò la voce di un probabile sbarco alleato in Versilia e di alcuni lanci col paracadute sulle alture, per schiacciare i nazisti nelle valli. In quei giorni tutto il gruppo era in fibrillazione, ognuno aveva una propria idea sulle azioni da intraprendere. Qualcuno arrivò con dei fogli lanciati dagli aerei americani in cui si dava l'indicazione di aiutare l'avanzata alleata con delle azioni di disturbo. Ci fu chi obiettò: quei volantini erano in circolazione già da diverse settimane, non erano riferiti allo sbarco e anche quello non era certo. Poi ci fu l’occupazione di Roma e gli animi furono presi dalla frenesia della conquista dei territori. Ci serviva una base:

Forno! Cominceremo da lì, disse il nostro comandante, Tito.

Nel giro di pochi giorni organizzammo l'occupazione del paese. L'attuazione non fu difficile, date le dimensioni e la posizione di quel gruppo di case a pochi chilometri da Massa. Quel giorno ero fiducioso di poter conoscere mio fratello, ma tra tutti i combattenti scesi in paese, Catacomba non si fece vedere. Fermai il Topo e gli chiesi se avesse avuto sue notizie. Le ultime voci erano che fosse stato mandato a minare la strada per Massa e che sarebbe tornato al passo di Colonnata attraverso la cresta del monte. Iniziai a pensare che mi prendessero tutti in giro, che questo Catacomba fosse esistito solo per farmi arruolare nelle fila della Mulargia e che Nando militasse in qualche altro gruppo o addirittura in nessuno.

Tuttavia le settimane passate assieme a quei ragazzi mossi dall’idea di poter cambiare il mondo solo con l’entusiasmo e qualche arma arrugginita e l’euforia di quella giornata di vittoria coinvolsero anche le parti più scettiche di me ed iniziai a credere davvero che si potesse sperare in un futuro migliore e che io fossi capitato lì proprio per aiutare a crearlo. Anzi, senza di me nulla sarebbe stato possibile. Certo, in guerra bisogna auto celebrarsi per far convergere le forze nel verso giusto.

Quella sera non ci concedemmo festeggiamenti, ci riunimmo in piccoli gruppi per presidiare il territorio. La maggior parte della Mulargia era sui passi o sulle vie d’accesso al paese. Noi eravamo in cinque, tutti sotto i vent’anni a parte il Gufo, che di anni ne aveva trentasette. Eravamo una retroguardia sulla strada per Massa. C’era mezzo fiasco di vino, pane secco e del lardo. Quel frugale bivacco, in quella notte di veglia, divenne una festa tra amici, un concilio di parole, sogni e tattiche di guerra, che alla fine rilassò gli animi e ci diede ancora conferme, dove di conferme, ormai, ne avevamo piantagioni.

Sogno una vita in cui non si debba più sognare. Una vita in cui si viva per davvero. La frase del Gufo, che aveva anche una fiaschetta di grappa ormai quasi vuota, risuonò lapidaria in mezzo ai suoi silenzi. Sia chiaro, se poi ci dovesse essere anche Dio, dopo… Bene, lo vedremo! E se ci sarà un caprone che dà cornate alle nostre anime spingendole in un fosso, vedremo anche quello, no? 

Ridemmo e brindammo per il Gufo col nostro mezzo bicchiere di vino a testa.

Ma non bere più o la guardia dobbiamo farla anche a te!

Quando la notte si fece umida iniziammo i turni di sonno. Quello fu l’ultimo momento di tranquillità in mezzo allo scompiglio di quei giorni.

Qualcuno alla testa dei Comitati di Liberazione reputava che avessimo azzardato troppo e messo in pericolo la popolazione. Altri ci incoraggiarono ed esortarono il nostro comandante, Tito, a continuare nell'operazione. Era chiaro che in quell’incertezza dovevamo stare all’erta e tentare di portare a compimento le azioni di disturbo per cui avevamo iniziato l’impresa. Ci furono delle incursioni a Massa nelle quali riuscimmo anche a barattare la liberazione di alcuni compagni con quella del figlio del direttore delle carceri, catturato durante un’azione nella casa circondariale.

Nel pomeriggio del dodici giugno si fece sempre più forte l’idea di una ritirata. I fascisti aspettavano rinforzi da La Spezia ed era chiaro che, come era stata facile la conquista del paese per la sua posizione infossata tra i monti, sarebbe stata facile anche la riconquista da parte dei nazifascisti. Sentii il Comandante discutere sulla necessità di far evacuare il paese. Non fu comunicato formalmente, la notizia arrivò per diffusione e non venne recepita come un’urgenza ma come una mesta incombenza per i giorni a venire. L’indomani, inoltre, era il giorno di Sant'Antonio, la festa patronale e non sarebbe stato facile convincere i paesani.

Ehi Piccolo! Prima di andarcene ci sono un po’ di cose da fare, mi disse il Gufo.

Questa sera dovrai portare della roba su al Sagro... Ah, dimenticavo, su c’è Catacomba, finalmente lo incontri!… Nando! È vero, ero qui per lui!

Quando arrivai in cima era quasi notte. Non c’era nessuno. Mi domandai se avevo preso la strada giusta, se quello era davvero il Sagro. Lo era! Guardando la posizione degli altri monti ero arrivato nel posto giusto. Cos’era successo, allora? Iniziai ad avere paura. Non era una paura adulta, era piuttosto quella che si ha da piccoli, quando ti tappi la testa con le lenzuola per non farti tagliare le orecchie dai mostri della notte. Volevo mia madre, anche mio padre, al limite. Scappai dietro l’unica siepe nelle vicinanze, imbracciai il mitra che stavo trasportando e mi tappai con una delle coperte che avevo nello zaino.

Che fai ragazzo? Sentii pronunciare da una voce molto vicina.

La mia testa fece capolino dalle volute di quella effimera protezione. Vidi il sorriso di un uomo a pochi centimetri dalla mia faccia.

Tu devi essere Piccolo.

Sono io, sì! Non fu facile convincerlo che stavo seguendo la fantomatica tattica “dell’imboscata” ed in effetti non sembrava così persuaso. Mi disse che era rimasto solo lui sulla cima, altri due erano scesi per controllare alcune anomalie, sarebbero ritornati nella notte.

Catacomba? No, non è qui!

Quelle anomalie diventarono chiare col passare delle ore. Da Colonnata, sotto di noi, si videro inizialmente indistinte, poi sempre più visibili alcune luci che risalivano il pendio, fino ad arrivare al passo. I due compagni erano tornati con le cattive notizie che ci aspettavamo. I fascisti stavano arrivando. Prendemmo le armi e scendemmo a valle.

Nelle prime ore della mattina la battaglia era già in atto. Arrivammo alla filanda, qualcuno ci disse che Tito era morto e che i tedeschi erano troppi. Iniziammo a sparare, ma non servì a nulla. A fine mattinata eravamo nelle mani dei nemici.


Allineato nelle fila dei perdenti, in attesa del mio destino, guardavo i volti dei miei compagni. Erano della stessa consistenza marmorea delle montagne che ci circondavano. In quel piazzale sembrava non esistesse più il movimento, persino il rumore aveva abbandonato quella parte di mondo, dopo il frastuono della battaglia. Ormai la gioia, le illusioni, la vita, erano cose di altri. Era davvero finita. Nella mia testa vorticavano solo ombre nere: l’idea della morte in un ragazzo di sedici anni.

Arrivarono alcuni militari tedeschi, uno aveva più gradi degli altri e con mollezza cominciò ad ispezionare quelle fila di monoliti tristi di cui facevo parte. Iniziò a scegliere. Arrivato a me, senza esitare mi indicò puntandomi col dito mignolo.

Questo!

Assieme al resto del gruppo, una decina di disperati, tutti al di sotto dei vent’anni, fui portato in uno stanzino della filanda. Poco dopo ci raggiunse nuovamente il militare graduato.

Voi andrete in Germania, disse, nei campi di lavoro. Tu no! Continuò sottovoce rivolgendosi a me. Sei troppo giovane e… Und shon!

Non sapevo cosa volesse dire, ma mi feci l’idea e restai zitto. Quando portarono via il resto del gruppo, restai solo col comandante. Mi legò una spessa corda ai polsi.

Precauzionen, mi disse storpiando la parola, poi fece cenno di seguirlo.

Scendemmo lungo il Frigido con la sua auto. Passammo per il paese. Dai balconi delle case, mazzi di gigli bianchi ricordavano mestamente il giorno di festa. Proseguimmo fino alla chiesetta di Sant’Anna, appena fuori dall'abitato, verso Massa. Si approssimava l’ora del tramonto e malgrado ci avvicinassimo all’estate ero in un tremito continuo. La percezione era di freddo, ma era il modo con cui il mio corpo condensava la stanchezza, la paura, la disillusione e la sensazione di non esserci già più, in un solo gesto.

Davanti a me c’erano molti miei compagni, gente del paese, ragazzi, vecchi. In piccoli gruppi prendevano posizione e cadevano nelle rocce del greto del torrente, senza vita. Una fila dopo l’altra. Nomi pronunciati al vento senza emozione. L’ultima volta che per quei nomi qualcuno avrebbe avuto un sussulto. Ah, sono io!...

Battistini Marcello. Biagi Alberto… Fuoco!

Riconobbi, mentre cadeva al suolo nel fragore delle armi, il comandante dei Carabinieri di Forno, Ciro Siciliano, colpevole di aver creduto che la vita fosse qualcosa per cui valesse la pena morire.

Ormai nella piazzetta ad aspettare il proprio destino erano rimasti pochi e dopo una pausa di qualche minuto, il caporale del plotone d’esecuzione riprese in mano la lista dei nomi.

Lorenzetti Giuseppe. Lori Giorgio. Macelloni Nando…

Come?... In un istante la mia anima che stava quasi concludendo il trasloco dal corpo era tornata al suo posto.

Comandante, quello è mio fratello!

Mi guardò e in un tempo che passò dall’eternità al millesimo di secondo in una danza di vampate di calore che dalla testa mi scendevano fino ai polpacci, fece cenno al caporale di sospendere la fucilazione.

Catacomba non lo rividi più. La sua sagoma sparì nel bosco, forse convinto che a salvarlo fosse stato lo sbaglio di qualcuno. Guardandolo mentre si allontanava pensai che il caprone del Gufo, quella sera, aveva perso due giovani anime da spingere nel fosso. Fui contento, in qualche modo.

Arrivò il buio. Il Comandante mi trattò in modo gentile. Mi sciolse i nodi dai polsi, forse tranquillizzato dalla mia inerzia, aprì il portello dell’auto e mi fece segno di salire. L’autista avviò il motore e scendemmo lungo la valle che portava a Massa. Passata qualche curva, i mezzi militari che ci precedevano rallentarono fino quasi a fermarsi. In quel punto, la strada correva a molti metri sopra il livello del fiume. Alla nostra destra, il monte saliva ripido, inscurito da una fitta boscaglia. Notai che il Comandante era distratto, con lo sguardo rivolto verso il fiume. Un lampo dentro di me. Feci uno scatto, riuscii a prendere la pistola che l’uomo teneva nella fondina. In un attimo era puntata alla sua tempia. Lui mi guardò senza dir nulla, sembrava attendere la sua sorte, forse pensando, nel profondo, di meritarsi qualsiasi cosa potesse arrivare da quell’arma. La tentazione di premere il grilletto era fortissima. Non lo feci, non ero un assassino, malgrado quella bestia si meritasse una morte diversa per ogni crimine che aveva commesso. Feci scivolare l’arma sul suo volto e rimanendo con lo sguardo fisso su di lui, scesi dall’auto e corsi via.

Risalendo il pendio, nel buio del bosco, non ci fu alcuno sparo dietro di me, solamente rumore di motori che riprendevano la loro marcia. Poi, il silenzio mi accompagnò verso la notte, verso la libertà.

Dopo qualche tempo mi ritrovai di nuovo sui monti, più a Nord. Più forte. Non volli più essere chiamato Piccolo. Ero Tito, come il comandante della Mulargia.

Sempre con noi!