lunedì 29 aprile 2024

Hogmanay, l'alba degli dèi

 
Titolo:  Hogmanay
L'alba degli dèi
Autore:  Luca Lume
Genere: Fantascienza
 
Un professore morto in circostanze misteriose. Un anno, il 2051, scomparso totalmente dai libri di Storia e un Amore, Laura.
All’indomani della sintesi della proteina che cancella la data di scadenza dall’etichetta degli esseri umani, il venir meno di una fine prestabilita trasforma profondamente il significato della vita. Le uniche fonti di leggerezza possibili sono realtà ricreate da microbi artificiali che legano in una rete virtuale l’intero genere umano, disperso in decine di pianeti e satelliti.
Richard, un ex ricercatore ormai bicentenario, entra in contatto con un’organizzazione di studiosi che tengono in vita le cellule di un suo vecchio docente di robotica, il Professor Linez, morto poco tempo dopo aver fatto alcune importanti scoperte riguardanti la coscienza umana.
Nel susseguirsi delle pagine, tutto ha una propria definizione, ma lo scorrere del tempo sfuma, scolora la Storia, all’infinito e il solo modo per trovarne il senso è creare un futuro che punti i propri riflettori verso il passato e ripercorrere tutte le strade a ritroso.

Il romanzo prende spunto dal racconto “La foto di una stazione”, con cui nel 2016 l’autore ha partecipato al Concorso Letterario “Fogli di Viaggio - sulle orme di Tiziano Terzani”, ottenendo il secondo premio.


domenica 21 aprile 2024

Avanti Savoia - Luca Lume






Avanti Savoia




Quando querce e castagni diventeranno marmo continua a sinistra. Poi sempre dritto, in su per il sentiero, mi dissero.

Con me avevo viveri, coperte. Armi. Dalla filanda alle ultime case, poi per la stretta valle dove, curva dopo curva, la vista si apriva sulle imponenti cime marmoree. Il monte Cavallo, il Grondilice, il Contrario. Ogni passo rivelava una prospettiva differente su quelle scarpate diafane. Le altezze dei monti sembravano variare a seconda dell’albero su cui rimbalzava lo sguardo e l’idea che quel potere dimensionale arrivasse da forme relativamente piccole, quasi invisibili dall’alto di quelle sculture primordiali, mi fece correre veloce e pensare che, in qualche modo, anche la mia insignificante corsa avrebbe potuto cambiare il destino della guerra.

Come spesso accade attraversando i più grandi cambiamenti della vita, mi ritrovai ad essere lì, a Forno, in quei giorni, per un puro caso. Mio padre era morto pochi mesi prima. Fino a quel momento la mia maggior delusione era stata scoprire che il minestrone della signora Lina, la vicina di sotto, l’unico che mi fosse mai piaciuto, in verità lo aveva sempre fatto mia madre e del suo non ne avevo mai sopportato neppure l’odore. Un giorno le rinfacciai duramente di non saper cucinare. Al posto di una sberla, lei mi tirò in faccia quella verità:

Gliel’ho sempre dato di nascosto per fartelo mangiare, gridò.

Piccole cose che a otto anni diventano grandi e lo restano per sempre. Poi se ne aggiungono altre. Mio padre, medaglia d’onore nella guerra di Spagna, uomo di mondo e orgoglio del fascismo, aveva l’aspirazione di donare il proprio seme a qualunque donna fosse passata per il suo campo visivo. Lo scoprii per caso: pochi giorni dopo del suo funerale, guardando la sua foto al cimitero, un amico mi disse che era impressionante quanto assomigliasse a mio cugino Marco... Era vero! Non ci avevo mai fatto caso.

Poi cugino… Perché cugino? Sua mamma non è sorella né cugina di nessun nostro parente e suo papà era un tedesco…

No, il padre di Marco era tuo padre!

Il mio mondo crollò in un attimo per ricompattarsi, quasi all’istante, sopra un altro piedistallo. Certo, è logico, pensai, mio padre non c’era mai e quando stava con noi sembrava che lo facesse come un favore. Ma perché lo sa un estraneo e non lo so io? Parlai a lungo con mia madre e mi raccontò tutto. Mi disse che per un ragazzo non sapere era il miglior modo per crescere bene. Non risposi per non aggredirla. Alla fine mi fece un’ultima confessione parlandomi sottovoce. Oltre a Marco avevo anche un altro fratello. Perlomeno uno, di cui si avesse conoscenza. È nato il tuo stesso giorno, mi disse con lo sguardo rivolto a terra e una lacrima che stentava ad uscire. Eravamo gemelli di pance diverse, pensai, quasi sorridendo.

Marco non avrei potuto considerarlo un fratello neppure sforzandomi. Troppo piccolo, troppo antipatico... Troppo stupido! Forse quel Nando, Nando Macelloni, così si chiamava, avrebbe potuto davvero essere mio fratello, per tutta la vita. Dovevo conoscerlo!

Figliuolo, siamo in guerra, non puoi andare così, da solo, a sedici anni. Lui vive a Massa, laggiù è pericoloso. Disse mia madre, con un tono innaturalmente retorico.

Sto già partendo, risposi.


Quando arrivai, nessuno sembrava conoscere Nando. Non avevo un indirizzo preciso, mia madre si ricordava di una strada, ma anche lì nessuno sapeva nulla. Quando già avevo perso gran parte delle speranze, mi si avvicinò un signore vestito di lino e con in testa una fedora bianca a tesa piuttosto ampia.

Ragazzo, mi disse, se pronunci ancora un paio di volte quel nome puoi dire addio alle tue palle! Devi cercarlo sui monti, tra Colonnata e Stazzema. Di più non so dirti.

A Colonnata fui meno imprudente, dato che “il mio gemello” doveva avere qualche ruolo nella resistenza. Strappai qualche informazione sui gruppi della montagna cercando di non tirarmi dietro la curiosità di qualche gerarca o di uno dei tanti fascisti zelanti. Verso sera notai un giovane mal vestito con alcune coperte sotto braccio ed uno zaino sgualcito in spalla. Quando gli domandai se avesse sentito parlare di un ragazzo di nome Nando di Massa, mi fissò per qualche secondo e mi disse di seguirlo che sul passo stavano aspettandomi.

Le coperte sono tue, prendi!

Arrivammo in cima quando il sole stava tramontando, ma, a dispetto della genericità del verbo, lo faceva sul mare. Il riverbero vermiglio riflesso su quei monti di marmo, dava all’ambiente un’atmosfera surreale. L’oscurità risaliva per le vallate. Sembrava che pian piano conquistasse spazio alla luce, mentre questa, ferita, batteva in ritirata sempre più verso l’alto, per poi sparire completamente vinta dalla notte e dalla sua quiete.

Bene, ridammi le coperte. Non sono le tue, sciocchino!

Ovviamente lassù non mi aspettava nessuno, ma tutti festeggiarono il mio arrivo.

Castoro non è troppo simpatico, però ha fiuto: capisce che uno è un partigiano ancora prima che lo diventi. È un genio! Mi dissero.

Castoro? Poi Topo, Criceto, Volpe. Non sarebbe stato facile trovare un nome reale in mezzo a quella fauna di epiteti, ma tentai.

Nando? Sì, è uno di noi. È sul Cavallo, aspetta segnali dalla radio. Ma devi chiedere di Catacomba, lo chiamiamo così... Catacomba? Andavamo bene!

Mi dissero che il loro gruppo si chiamava “Mulargia”.

Sempre con noi! Fu pronto ad urlare un ragazzotto, indirizzando quel grido al martire da cui avevano preso il nome. Io dissi che non avevo mai avuto precise idee politiche. Mio padre era fascista, ma il mio migliore amico era ebreo ed era stato portato via con tutta la sua famiglia.

Ecco, mi dissero, è per lui che cambierai le sorti di questo paese.

Quel sommario indottrinamento politico fu miracolosamente efficace a farmi diventare un partigiano. Da quel giorno fui ribattezzato “Piccolo”, essendo il più giovane combattente del gruppo, assieme al mio gemello.

Passarono le settimane ma di Catacomba non se ne vedeva neppure l'ombra, mi dissero che era sempre impegnato sui monti perché era bravissimo con le radio ed eravamo in attesa di un segnale importante. Infatti un giorno arrivò la voce di un probabile sbarco alleato in Versilia e di alcuni lanci col paracadute sulle alture, per schiacciare i nazisti nelle valli. In quei giorni tutto il gruppo era in fibrillazione, ognuno aveva una propria idea sulle azioni da intraprendere. Qualcuno arrivò con dei fogli lanciati dagli aerei americani in cui si dava l'indicazione di aiutare l'avanzata alleata con delle azioni di disturbo. Ci fu chi obiettò: quei volantini erano in circolazione già da diverse settimane, non erano riferiti allo sbarco e anche quello non era certo. Poi ci fu l’occupazione di Roma e gli animi furono presi dalla frenesia della conquista dei territori. Ci serviva una base:

Forno! Cominceremo da lì, disse il nostro comandante, Tito.

Nel giro di pochi giorni organizzammo l'occupazione del paese. L'attuazione non fu difficile, date le dimensioni e la posizione di quel gruppo di case a pochi chilometri da Massa. Quel giorno ero fiducioso di poter conoscere mio fratello, ma tra tutti i combattenti scesi in paese, Catacomba non si fece vedere. Fermai il Topo e gli chiesi se avesse avuto sue notizie. Le ultime voci erano che fosse stato mandato a minare la strada per Massa e che sarebbe tornato al passo di Colonnata attraverso la cresta del monte. Iniziai a pensare che mi prendessero tutti in giro, che questo Catacomba fosse esistito solo per farmi arruolare nelle fila della Mulargia e che Nando militasse in qualche altro gruppo o addirittura in nessuno.

Tuttavia le settimane passate assieme a quei ragazzi mossi dall’idea di poter cambiare il mondo solo con l’entusiasmo e qualche arma arrugginita e l’euforia di quella giornata di vittoria coinvolsero anche le parti più scettiche di me ed iniziai a credere davvero che si potesse sperare in un futuro migliore e che io fossi capitato lì proprio per aiutare a crearlo. Anzi, senza di me nulla sarebbe stato possibile. Certo, in guerra bisogna auto celebrarsi per far convergere le forze nel verso giusto.

Quella sera non ci concedemmo festeggiamenti, ci riunimmo in piccoli gruppi per presidiare il territorio. La maggior parte della Mulargia era sui passi o sulle vie d’accesso al paese. Noi eravamo in cinque, tutti sotto i vent’anni a parte il Gufo, che di anni ne aveva trentasette. Eravamo una retroguardia sulla strada per Massa. C’era mezzo fiasco di vino, pane secco e del lardo. Quel frugale bivacco, in quella notte di veglia, divenne una festa tra amici, un concilio di parole, sogni e tattiche di guerra, che alla fine rilassò gli animi e ci diede ancora conferme, dove di conferme, ormai, ne avevamo piantagioni.

Sogno una vita in cui non si debba più sognare. Una vita in cui si viva per davvero. La frase del Gufo, che aveva anche una fiaschetta di grappa ormai quasi vuota, risuonò lapidaria in mezzo ai suoi silenzi. Sia chiaro, se poi ci dovesse essere anche Dio, dopo… Bene, lo vedremo! E se ci sarà un caprone che dà cornate alle nostre anime spingendole in un fosso, vedremo anche quello, no? 

Ridemmo e brindammo per il Gufo col nostro mezzo bicchiere di vino a testa.

Ma non bere più o la guardia dobbiamo farla anche a te!

Quando la notte si fece umida iniziammo i turni di sonno. Quello fu l’ultimo momento di tranquillità in mezzo allo scompiglio di quei giorni.

Qualcuno alla testa dei Comitati di Liberazione reputava che avessimo azzardato troppo e messo in pericolo la popolazione. Altri ci incoraggiarono ed esortarono il nostro comandante, Tito, a continuare nell'operazione. Era chiaro che in quell’incertezza dovevamo stare all’erta e tentare di portare a compimento le azioni di disturbo per cui avevamo iniziato l’impresa. Ci furono delle incursioni a Massa nelle quali riuscimmo anche a barattare la liberazione di alcuni compagni con quella del figlio del direttore delle carceri, catturato durante un’azione nella casa circondariale.

Nel pomeriggio del dodici giugno si fece sempre più forte l’idea di una ritirata. I fascisti aspettavano rinforzi da La Spezia ed era chiaro che, come era stata facile la conquista del paese per la sua posizione infossata tra i monti, sarebbe stata facile anche la riconquista da parte dei nazifascisti. Sentii il Comandante discutere sulla necessità di far evacuare il paese. Non fu comunicato formalmente, la notizia arrivò per diffusione e non venne recepita come un’urgenza ma come una mesta incombenza per i giorni a venire. L’indomani, inoltre, era il giorno della festa patronale, non sarebbe stato facile convincere i paesani.

Ehi Piccolo! Prima di andarcene ci sono un po’ di cose da fare, mi disse il Gufo.

Questa sera dovrai portare della roba su al Sagro... Ah, dimenticavo, su c’è Catacomba, finalmente lo incontri!… Nando! È vero, ero qui per lui!

Quando arrivai in cima era quasi notte. Non c’era nessuno. Mi domandai se avevo preso la strada giusta, se quello era davvero il Sagro. Lo era! Guardando la posizione degli altri monti ero arrivato nel posto giusto. Cos’era successo, allora? Iniziai ad avere paura. Non era una paura adulta, era piuttosto quella che si ha da piccoli, quando ti tappi la testa con le lenzuola per non farti tagliare le orecchie dai mostri della notte. Volevo mia madre, anche mio padre, al limite. Scappai dietro l’unica siepe nelle vicinanze, imbracciai il mitra che stavo trasportando e mi tappai con una delle coperte che avevo nello zaino.

Che fai ragazzo? Sentii pronunciare da una voce molto vicina.

La mia testa fece capolino dalle volute di quella effimera protezione. Vidi il sorriso di un uomo a pochi centimetri dalla mia faccia.

Tu devi essere Piccolo.

Sono io, sì! Non fu facile convincerlo che stavo seguendo la fantomatica tattica “dell’imboscata” ed in effetti non sembrava così persuaso. Mi disse che era rimasto solo lui sulla cima, altri due erano scesi per controllare alcune anomalie, sarebbero ritornati nella notte.

Catacomba? No, non è qui!

Quelle anomalie diventarono chiare col passare delle ore. Da Colonnata, sotto di noi, si videro inizialmente indistinte, poi sempre più visibili alcune luci che risalivano il pendio, fino ad arrivare al passo. I due compagni erano tornati con le cattive notizie che ci aspettavamo. I fascisti stavano arrivando. Prendemmo le armi e scendemmo a valle.

Nelle prime ore della mattina la battaglia era già in atto. Arrivammo alla filanda, qualcuno ci disse che Tito era morto e che i tedeschi erano troppi. Iniziammo a sparare, ma non servì a nulla. A fine mattinata eravamo nelle mani dei nemici.


Allineato nelle fila dei perdenti, in attesa del mio destino, guardavo i volti dei miei compagni. Erano della stessa consistenza marmorea delle montagne che ci circondavano. In quel piazzale sembrava non esistesse più il movimento, persino il rumore aveva abbandonato quella parte di mondo, dopo il frastuono della battaglia. Ormai la gioia, le illusioni, la vita, erano cose di altri. Era davvero finita. Nella mia testa vorticavano solo ombre nere: l’idea della morte in un ragazzo di sedici anni.

Arrivarono alcuni militari tedeschi, uno aveva più gradi degli altri e con mollezza cominciò ad ispezionare quelle fila di monoliti tristi di cui facevo parte. Iniziò a scegliere. Arrivato a me, senza esitare mi indicò puntandomi col dito mignolo.

Questo!

Assieme al resto del gruppo, una decina di disperati, tutti al di sotto dei vent’anni, fui portato in uno stanzino della filanda. Poco dopo ci raggiunse nuovamente il militare graduato.

Voi andrete in Germania, disse, nei campi di lavoro. Tu no! Continuò sottovoce rivolgendosi a me. Sei troppo giovane e… Und shon!

Non sapevo cosa volesse dire, ma mi feci l’idea e restai zitto. Quando portarono via il resto del gruppo, restai solo col comandante. Mi legò una spessa corda ai polsi.

Precauzionen, mi disse storpiando la parola, poi fece cenno di seguirlo.

Scendemmo lungo il Frigido con la sua auto fino alla chiesetta di Sant’Anna, appena fuori dal paese, verso Massa. Si approssimava l’ora del tramonto e malgrado ci avvicinassimo all’estate ero in un tremito continuo. La percezione era di freddo, ma era il modo con cui il mio corpo condensava la stanchezza, la paura, la disillusione e la sensazione di non esserci già più, in un solo gesto.

Davanti a me c’erano molti miei compagni, gente del paese, ragazzi, vecchi. In piccoli gruppi prendevano posizione e cadevano nelle rocce del greto del torrente, senza vita. Una fila dopo l’altra. Nomi pronunciati al vento senza emozione. L’ultima volta che per quei nomi qualcuno avrebbe avuto un sussulto. Ah, sono io!...

Battistini Marcello. Biagi Alberto… Fuoco!

Riconobbi, mentre cadeva al suolo nel fragore delle armi, il comandante dei Carabinieri di Forno, Ciro Siciliano, colpevole di aver creduto che la vita fosse qualcosa per cui valesse la pena morire.

Ormai nella piazzetta ad aspettare il proprio destino erano rimasti pochi e dopo una pausa di qualche minuto, il caporale del plotone d’esecuzione riprese in mano la lista dei nomi.

Lorenzetti Giuseppe. Lori Giorgio. Macelloni Nando…

Come?... In un istante la mia anima che stava quasi concludendo il trasloco dal corpo era tornata al suo posto.

Comandante, quello è mio fratello!

Mi guardò e in un tempo che passò dall’eternità al millesimo di secondo in una danza di vampate di calore che dalla testa mi scendevano fino ai polpacci, fece cenno al caporale di sospendere la fucilazione.

Catacomba non lo rividi più. La sua sagoma sparì nel bosco, forse convinto che a salvarlo fosse stato lo sbaglio di qualcuno. Guardandolo mentre si allontanava pensai che il caprone del Gufo, quella sera, aveva perso due giovani anime da spingere nel fosso. Fui contento, in qualche modo.

Arrivò il buio. Il Comandante mi trattò in modo gentile. Mi sciolse i nodi dai polsi, forse tranquillizzato dalla mia inerzia, aprì il portello dell’auto e mi fece segno di salire. L’autista avviò il motore e scendemmo lungo la valle che portava a Massa. Passata qualche curva, i mezzi militari che ci precedevano rallentarono fino quasi a fermarsi. In quel punto, la strada correva a molti metri sopra il livello del fiume. Alla nostra destra, il monte saliva ripido, inscurito da una fitta boscaglia. Notai che il Comandante era distratto, con lo sguardo rivolto verso il fiume. Un lampo dentro di me. Feci uno scatto, riuscii a prendere la pistola che l’uomo teneva nella fondina. In un attimo era puntata alla sua tempia. Lui mi guardò senza dir nulla, sembrava attendere la sua sorte, forse pensando, nel profondo, di meritarsi qualsiasi cosa potesse arrivare da quell’arma. La tentazione di premere il grilletto era fortissima. Non lo feci, non ero un assassino, malgrado quella bestia si meritasse una morte diversa per ogni crimine che aveva commesso. Feci scivolare l’arma sul suo volto e rimanendo con lo sguardo fisso su di lui, scesi dall’auto e corsi via.

Risalendo il pendio, nel buio del bosco, non ci fu alcuno sparo dietro di me, solamente rumore di motori che riprendevano la loro marcia. Poi, il silenzio mi accompagnò verso la notte, verso la libertà.

Dopo qualche tempo mi ritrovai di nuovo sui monti, più a Nord. Più forte. Non volli più essere chiamato Piccolo. Ero Tito, come il comandante della Mulargia.

Sempre con noi!






sabato 9 settembre 2023

Marocco








Sono in cima al monte Figogna, la Guardia per noi polceveraschi. Sono in bici. La stanchezza la sento, meno di qualche mese fa, ma la sento. Però sto bene: ho forza e fame.
Ora sono seduto nel piazzale d'erba e di schiamazzi: radioline, cani, bambini, altoparlanti con la messa. Ma la somma di tutto è quasi un silenzio.
Penso ai viaggi, che spesso non hanno nulla a che vedere con le vacanze e penso al Marocco. Penso alle tante vite che non ci sono più, a quelle in fin di vita negli ospedali o che hanno perso amici e parenti. A quelle che non hanno più una casa, in una terra che tra dieci giorni avevo programmato di raggiungere.

Penso all'opportunità o meno di andarci, al fatto che speravo di incontrare qualche tipo di bellezza che ora è deturpata e che piuttosto il mio viaggio mi riporterebbe a quello che per tutta la vita si cerca di fuggire: il dolore.
Ma continuo a pensare alla dicotomia tra viaggio e vacanza e mi vengono in mente "I fiori del male" di Baudelaire e che il viaggio non è altro che uno spostamento di concetti nello spazio, metafora della vita stessa. Nel viaggio, magari solo in quello specifico punto del mondo, mettiamo a nudo qualche nostro tratto celato, trattenuto o sfumato. E lì prende forma, nel rapporto con le persone che trovi, con il profumo delle mattine, ma, certo, probabilmente anche con l'odore della polvere delle macerie.

                                 


Per questo ho pensato che non andarci sarebbe come un tradimento. Con un ipotetico senno del poi, non mi sentirei altro che un vacanziero in viaggio per depredare solo la sfruttabilità del luogo che mi ospita. Avrei una certa vergogna. Le mie considerazioni, alla fine, sono diverse e piuttosto semplici, ma le decisioni non sono mai semplici, la coscienza non ti dà soluzioni, ma insinua, ti giudica. Anche il solo parlare del mio viaggetto, della mia coscienza, dopo una sciagura del genere, sembra una forzatura, una leggerezza... È tutto difficile!
La voce interna mi dice che partirò, se mi verrà permesso, non renderà giustizia a chi non c'è più, ma non la toglierà neppure.


Forse potrà essere la cosa giusta... penso che lo sia. 



martedì 11 luglio 2023

Il fantasma dei 27 - Luca Lume

 


Ci sono dei tempi nella nostra vita che ne sono delle chiavi di volta, essi sorreggono un prima, da una parte, e un dopo dall'altra.
Marco, un bambino vivace, diventa ragazzo, poi uomo. L'amicizia con Laura segna la sua crescita, ancora di più lo fa il perderla, continuamente: ogni avvicinamento è sempre seguito da un allontanamento ancora più profondo. Poi la morte del padre in un incidente segna definitivamente la sua vita, quella della madre e della sorella.
Ma il tempo scorre senza un modello e noi con lui, in un mondo che non è mai stato come prima e non ha appigli, non fornisce approdi sicuri. Così tutto cambia e cambia ancora, non c'è mai un epilogo ma un tassello in più, sempre diverso e cambiamenti inaspettati riporteranno Marco a tirare a sé i fili della sua vita.


La base l'ho scritta a fine anni 90, di recente ho unito altri 3 racconti più recenti che mi sembravano la perfetta continuazione di quanto scritto più di 20 anni fa.

SI trova sia in formato cartaceo che in e-book all'indirizzo:


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lunedì 10 luglio 2023

Sfumando sul nome di una donna - Luca Lume



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E allora al diavolo tutto! La coerenza, l'amicizia, la paura; in fondo la vita è una vampata di ossidoriduzioni che inspiegabilmente, nella loro stechiometria bislacca, si innescano, amano e soffrono; creano energia e distruzione. Tanto valeva far pendere la chimica verso l’amore, cibarsi al banchetto della passione, noncurante di quella spada legata con un sottilissimo filo a un palmo dalla sua testa. Lasciarla dondolare lì sopra, pronta a tagliarlo in due alla minima distrazione.


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